Gucci non è in crisi. Ha perso il suo perché
Gucci non è in crisi. Ha perso il suo perché
Gucci sta sbiadendo. E quando un brand come Gucci inizia a perdere appeal, il problema non è solo di bilancio. È di identità.
-23% nei ricavi nel 2024,
-62% di utile netto per il gruppo Kering,
vendite in caduta libera in Asia.
Non è una battuta d’arresto. È un campanello d’allarme assordante.
Cosa sta succedendo a Gucci?
1. Una transizione creativa o una crisi di identità?
Non è (solo) il passaggio dal barocco eccentrico di Alessandro Michele al minimalismo rigido di Sabato De Sarno. È che Gucci, negli ultimi anni, ha smesso di essere Gucci.
Due direttori creativi – agli antipodi – che, anziché evolvere il marchio, lo hanno reinterpretato secondo le richieste del mercato. Ma un brand come Gucci non può essere solo reattivo. Deve essere visionario, assertivo, coerente. Oggi il consumatore non percepisce più chi sia Gucci. È il brand dei sogni art déco? È il provocatore da red carpet? È la sobrietà elegante? È tutto? È niente? La continua discontinuità narrativa ha generato confusione, disaffezione e disorientamento. Quando manca una direzione valoriale solida, anche l’estetica più sofisticata resta superficiale.
Cosa manca?
• Un’identità valoriale forte, riconoscibile nel tempo.
• Un’eredità riletta, non riscritta.
• Una coerenza narrativa, che non cambi al cambiare del direttore creativo.
Il vero problema non è cosa Gucci propone. È che non sa più chi è. E se un brand non sa chi è, il consumatore non potrà mai desiderarlo davvero.
2. Troppi clienti aspirazionali, poca fedeltà reale
Gucci ha inseguito la Gen Z e i nuovi ricchi digitali con una fame spasmodica di hype e engagement. Risultato? Boom di ricavi a breve. Erosione del valore a lungo. Il brand ha scambiato la fedeltà costruita nel tempo con l’attenzione momentanea di un pubblico volubile, che oggi ti osanna e domani ti dimentica per il trend successivo. Chi compra Gucci per status e non per convinzione, non resta. Chi ti sceglie perché sei “di moda”, smette di farlo quando la moda cambia.
Gli effetti concreti di questa strategia:
• Fidelizzazione debole: l’acquirente aspirazionale è infedele per definizione.
• Brand equity intaccata: se ti adatti troppo a tutti, non rappresenti più nessuno.
• Ciclo corto del desiderio: un eccesso di visibilità senza profondità riduce la desiderabilità percepita.
L’errore di fondo:
Gucci ha agito con logica da startup, cercando crescita esplosiva, invece che con la strategia di un heritage brand, che costruisce nel tempo attraverso simboli, valori, ritualità. Il lusso non è per tutti. E quando lo diventa, perde potere narrativo. Più accessibile = meno esclusivo. Più immediato = meno duraturo.
Gucci non ha solo perso clienti affezionati. Ha formato una generazione di clienti che non saprà spiegare perché dovrebbe tornare.
3. Dipendenza dalla Cina: arma a doppio taglio
Gucci ha puntato forte – forse troppo – sul mercato cinese. Un’operazione redditizia nel breve, devastante nel medio periodo. Per anni, il brand ha tratto forza da un consumatore entusiasta, giovane, affamato di simboli di status. Ma è qui il problema: non cercava Gucci. Cercava un logo. Quando un mercato si espande più velocemente della cultura del prodotto, non si genera fedeltà. Si crea consumo compulsivo. E il consumo compulsivo non costruisce valore, lo brucia.
Il rischio sottovalutato:
• Un pubblico che non riconosce la storia del marchio, ma solo il potere esteriore del logo.
• Un ciclo di acquisto basato su apparenza, non su appartenenza.
• Una crescita drogata, che si ferma non appena il contesto economico rallenta (come sta accadendo oggi in Cina).
Effetto collaterale?
Quando il mercato si sgonfia (o guarda altrove), non rimane nulla: nessun legame profondo, nessuna lealtà, nessuna narrazione. Solo un marchio esausto, svuotato dalla sua stessa sovraesposizione.
L’errore strategico:
Scambiare la quantità per qualità. Pensare che “più vendi” significhi “più sei forte”. Ma nel lusso, la forza vera non si misura in volumi. Si misura in profondità. Gucci ha colonizzato un mercato che non ha mai educato. E adesso, quel mercato non lo riconosce più. Ha consumato Gucci… e poi lo ha scartato.
4. L’eccesso logora. Anche nel lusso.
Gucci è diventato onnipresente: capsule collection a rotazione, collaborazioni seriali, loghi moltiplicati ovunque. Per un po’ ha funzionato: hype, foto su Instagram, fila fuori dai flagship. Poi è diventato rumore. Un flusso indistinto di prodotti e iniziative, dove tutto urla – ma niente resta. Nel lusso, l’eccesso non amplifica. Satura. E la saturazione è il contrario della desiderabilità.
Gli effetti dell’iper-produzione:
• Inflazione del logo: quando il monogramma diventa ovunque, non vale più niente.
• Erosione dell’esclusività: se tutti hanno accesso, nessuno sogna più di appartenere.
• Perdita di iconicità: troppe iniziative, nessuna identità chiara.
Il brand è passato dall’essere culto a essere commodity.
L’errore strategico:
Gucci ha confuso la visibilità con la rilevanza. Ha pensato che essere dappertutto fosse sufficiente.
Ma il lusso non si misura in centimetri di esposizione, si misura in profondità simbolica. Quando un brand pensa più a uscire ogni settimana che a dire qualcosa di significativo, non cresce: si svuota.
E se l’esclusività diventa merchandising, la magia evapora. Gucci non ha perso quota perché non è più “cool”. Ha perso perché ha smesso di essere unico.
E adesso?
Kering promette una svolta. Ma rilanciare Gucci richiederà più di una sfilata ben fatta. Serve ridare una voce riconoscibile al brand. Serve tornare a fare cultura, non solo collezioni. Perché nel lusso, o sei desiderato… o sei dimenticato.